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Luigi Balsamini, Marco Rossi, I Ribelli dell’Adriatico, L’Insurrezione di Valona e la rivolta di Ancona del 1920
Milano, Zero in condotta, 2021, I ed. 2020, pp. 157, € 10.00.
Un giorno la ricerca futura potrebbe parlare d’una serie di pubblicazioni da far risalire, aldilà delle tematiche, al periodo pandemico, quando, chiusi in casa (chi si ricorda il lockdown?), i saggisti, con quello che avevano a disposizione, ne hanno approfittato per metter mano a qualche oggetto di studio, lasciato lì da tempo, facendogli guadagnare la dignità di monografia.
Il volumetto è infatti uscito in prima edizione proprio nel giugno 2020, esattamente nel centenario del fatto ricostruito, passato alla storia sotto il nome di Rivolta dei bersaglieri di Ancona. A redigerlo, quelli che oggi sono con ogni probabilità i maggiori studiosi del movimento libertario e del nesso tra combattentismo di trincea e sovversivismo in Italia. Ambedue, non a caso, rispettivamente autori di due tra i principali testi sugli Arditi del popolo, condividendo il podio con Eros Francescangeli.
Balsamini e Rossi si sono in questo caso divisi i compiti. Rossi è autore della prima parte, quella cioè che ricostruisce gli antefatti e l’excursus storico che ha portato alle vicende narrate: un lavoro certamente non facile, poiché significa affrontare una matassa difficilissima da districare, com’è quella della storia dei Balcani, con il suo mosaico di etnie tra Occidente ed Oriente, strutture tribali e bizantinismi nel susseguirsi dei poteri, perlopiù a margine delle curiosità occidentali. Insomma, il termine balcanizzazione non è nato per caso.
A Balsamini, con la seconda parte, spetta invece l’ingresso nel vivo della sollevazione anconetana e delle sue immediate conseguenze in termini politici e giudiziari, con la dovuta attenzione verso gli anarchici, protagonisti di quei frangenti, e sulla cui storia l’Autore ha singolare dimestichezza.
In merito agli avvenimenti pregressi, in un’estrema sintesi che riesca comunque ad invitare alla necessaria lettura, il sentimento italiano verso l’Albania è andato mutando a cavallo tra i secoli XIX e XX. Sulla scia del Risorgimento democratico era maturata una simpatia verso il popolo albanese, un popolo antichissimo che non riusciva a trovare letteralmente luogo, schiacciato dagli espansionismi imperialisti. L’internazionalismo democratico, espressosi a fine Ottocento segnatamente con il legionarismo di matrice garibaldina, cedeva man mano il passo ad una concezione diversa delle relazioni internazionali, in concomitanza con i cambiamenti culturali e politici in atto nell’èlite italiana. Non più quindi liberazione di popoli oppressi ma spartizione della torta, magari lasciando pressoché intatta la precedente fraseologia. Il mutamento di rotta è sancito dalla Guerra italo – turca di Libia, con quel desiderio di trovare un posto al sole anche per la potenza italiana, a partire dalle sponde dirimpetto. Da qui il proposito di penetrazione nei Balcani, utilizzando la rampa di lancio proprio dell’Albania, viepiù con lo sprone dato dalla Grande guerra. L’Albania e, nella fattispecie, la regione costiera di Valona, è vista dagli occupanti italiani come avamposto di penetrazione ma, contro questi, si scatenava una tenace resistenza da parte del patriottismo albanese, intento ad ottenere l’indipendenza e la sovranità del Paese delle aquile.
La situazione precipita nel giugno 1920, con il Regio esercito asserragliato a Valona e perciò la necessità di rinforzi. Qui si viene a creare quella che in premessa si scorge come sintonia tra bandiere rosse e nere: quelle dell’indipendentismo albanese e quelle dell’anarchismo italiano. Quest’incontro ideale, più circonstanziatamente, avviene alla Caserma dei bersaglieri, a partire dalla sera del 24 giugno 1920, quando giunge l’ordine di partenza immediata per Valona. In una città tradizionale roccaforte dell’anarchismo, i militari, tra convinzioni politiche, simpatia con gli insorti albanesi, comprensibile rifiuto di rimettersi a fare la guerra, voglia di tornare a casa ed altre necessità individuali, rigettano l’ordine. Ne segue un vero e proprio ammutinamento, con la popolazione che accorre a sostenere una sollevazione che, intanto, è uscita dal perimetro delle caserme per dilagare nelle borgate della città, negli altri centri, mentre in varie parti d’Italia si tengono blocchi ferroviari, scioperi e manifestazioni di solidarietà. Si piazzano mitragliatrici, e le si adopera: si spara contro la Guardia regia e i militari intenti alla repressione. Automatico il paragone con la Settimana rossa del 1914 ma non era la stessa faccenda: c’è stata in mezzo una cosa come la Prima guerra mondiale.
È quello anconetano l’episodio avvenuto durante il Biennio rosso che più si è avvicinato ad una rivoluzione, da intendersi come quelle russe di tre anni prima, poiché si è avvalso dell’unità tra soldati ed operai e perché ha toccato un centro, per quanto periferico, del potere politico-militare anziché di produzione, come le fabbriche ed i campi, cioè i terreni quasi esclusivi di mobilitazione sociale del periodo. Una rivolta costata oltre trenta vittime, anch’essa destinata tuttavia a rientrare, sebbene con due punti a proprio favore: la mancata partenza dei bersaglieri e, in senso più politico, il ritiro italiano da Valona (anche se, sappiamo, si trattò d’un drammatico arrivederci).
L’apporto fondamentale, tra le varie culture politiche in campo, era stato dato ovviamente dagli anarchici, con le loro strutture e la loro stampa; più prudenti socialisti e repubblicani, e su questi ultimi gravava l’accusa di essere stati totalmente interventisti, un sentimento ormai marcatamente a ribasso nel movimento operaio. È segnalato, a tal proposito, l’attivismo del Partito mazziniano, su posizioni più radicaleggianti nonché astensioniste. Da Fiume, D’Annunzio aveva invece deplorato l’accaduto con toni, però, più paternalistici che altro, probabilmente consapevole che nel suo seguito non fossero assenti simpatie verso la sollevazione. E, del resto, a Fiume si era stabilita la condanna dell’imperialismo anche interalleato, con l’apposita creazione della Lega dei popoli oppressi.
I Fatti di Ancona, assieme ad altri avvenuti in quel biennio, come l’assalto alla Redazione milanese de “L’Avanti!” (15 aprile 1919), il Complotto di Pietralata a Roma (7-8 luglio 1919) e la stessa Impresa fiumana, sono stati insieme manifestazioni e segnali premonitori, in quell’interludio tra l’Italia che non c’era più, quella di prima della Grande guerra, e quella che sarebbe stata dopo, di lì a poco.
Silvio Antonini
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