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«Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente»

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"No Lorenzo non ci siamo"

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"No Lorenzo non ci siamo"

"Per i concerti ci sono i luoghi attrezzati e gli stadi. Forse vengono ignorati perché costano?

Le coste italiane rappresentano un fragilissimo patrimonio pubblico di biodiversità da proteggere, già pesantemente compromesso da speculazioni, dissesti, inquinamento, cementificazioni selvagge, sfruttamento, erosione, cambiamenti climatici. Ma a quale scopo acconsentire ad eventi ad altissimo impatto con migliaia di persone ammassate nei luoghi più incontaminati? È questo il rispetto dell'ambiente che per un paese come il nostro dovrebbe essere la priorità? Le spiagge sono un ambiente delicatissimo con habitat e specie spesso molto sofferenti come il fratino in via di estinzione e la tartaruga comune Caretta Caretta. Non sono di certo spazio adatto a grandi concerti che con il loro impatto comportano danni alla natura talvolta ingenti e permanenti".

"Il rischio che le spiagge italiane si trasformino definitivamente in palasport all'aperto è altissimo ed è molto probabile che altri artisti seguano questa linea rendendo la situazione ingestibile - Porti la musica nei luoghi adatti alla musica e lasci in pace le spiagge!".

L’annuncio, avvenuto nel mese di dicembre 2018, che Jovanotti avrebbe realizzato il Jova Beach Party sulle spiagge aveva sollevato nel mondo ambientalista un quasi unanime fronte di critiche, legate all’uso improprio delle spiagge, «che vanno a sostituire gli stadi e i palasport, e al timore che la dimensione stessa dell’evento (nel sito ufficiale di Jovanotti si parla di “Più di un concerto, più di un tour, più di una festa. Sarà un vero e proprio villaggio itinerante. Gigante, mastodontico, in riva al mare”) avrebbe contribuito a danneggiare delicati ecosistemi dunali e spiagge già minacciate dal fenomeno dell’erosione».

«Luoghi fragili, troppo l'impatto»

«La volontà di realizzare il tour in siti non deputati a eventi di questo tipo pone inoltre problemi generali di adeguamento dei luoghi che possono comportare necessarie e impattanti bonifiche e “ristrutturazioni”.

«Questa storia è come il sacchetto dell’umido che hai lasciato pieno per dieci giorni: come lo muovi, colano liquami».

Così si è commentato, Jovanotti accusava genericamente il mondo dell’ambientalismo di essere «più inquinato dello scarico della fogna di Nuova Delhi».

Il Jova Beach Party non è solo una tournée: è parte di un frame devastante che viene riproposto da anni, rappresenta in modo plastico il capitale nella sua forma più perniciosa e camaleontica.

Quando nel 2019 a Vasto viene annunciato il Jova Beach Party, nonostante le scarse informazioni iniziali, ci sono fin da subito forti perplessità in merito alle location e all’organizzazione del grande evento, che a tutti gli effetti si presenta come grande opera. I costi, l’impatto sull’ambiente, la logistica, il messaggio veicolato, il ricorso a un certo ambientalismo usa-e-getta… Problematiche che con il crescere delle informazioni e con l’inizio del tour emergono in tutta la loro drammatica realtà.

Di fronte alle molte critiche, la prende male.

Prima dichiara: «Non siamo hooligan che dove vanno distruggono tutto. Noi siamo diversi, dove andiamo costruiamo, rispettiamo l’ambiente, i luoghi e le persone. Lasciamo i luoghi più puliti di come li troviamo».

Dopo la cancellazione del concerto di Vasto su indicazione della Prefettura di Chieti, ricorrendo a una formula subdolamente negazionista e abusatissima negli attacchi ai movimenti che si battono contro le grandi opere inutili e devastanti, dichiara: «A Vasto ha vinto il fronte del NO, quello di cui l’Italia è pervasa».

  1. La funzione Jovanotti

La querelle che ha accompagnato il Jova Beach Party è interessante perché vi si trova condensata una congerie di narrazioni tossiche che se analizzate e demistificate saranno, almeno parzialmente, depotenziate in futuro.

L’evento Jova Beach Party – «più di uno stadio, più di un palasport, più di un festival, molto più di un concerto», com’è presentato sul sito che lo produce e lo organizza. Ci riferiamo a quella banalizzazione della psicologia positiva che trova un corrispettivo nella versione popolarizzata e divulgativa tipica dei manuali di self-help. Una narrazione dove le classi scompaiono, che non contempla il ruolo dei privilegi, ma che trova ampia ricezione in tutti gli strati sociali e quindi viene recepita agevolmente nel discorso pubblico, senza che nessuno la trovi contraddittoria, persino quando la propinano pop-star milionarie.

Siamo convinti che solo Jovanotti potesse svolgere, in Italia, una funzione da apripista per mega-show che si svolgono in ambienti naturali dove, benché duramente stressati dall’azione antropica, resistono delicati ecosistemi.

Il punto della questione non è Jovanotti in sè, ma la funzione che Jovanotti svolge.

Di tutta l’operazione Jova Beach Party, a risultare più tossico è il fatto che Jovanotti non si accontenti di un mega-show allestito a scopi commerciali, di soddisfare in questo modo la propria ambizione e volontà di potenza, di mostrare al mondo – a chi può permettersi il costo del biglietto d’ingresso, ma poi c’è la copertura assicurata dai media – «una città temporanea, un villaggio sulla spiaggia, un nuovo format di concerto, un happening per il nuovo tempo» (sempre dalla presentazione offerta del sito)… No, Jovanotti vuole anche dare a tutto ciò una veste pedagogica, imporre il mega-show come momento “alto” di aggregazione e divertimento per i messaggi che presuntamente veicola: «la tutela del mare e il contrasto all’abbandono dei rifiuti in materiali plastici», come sintetizza Donatella Bianchi, presidente di WWF Italia.

Questo “di più” non stona, anzi, risuona perfettamente con l’immagine pubblica che Jovanotti si è costruito nella sua trentennale carriera: il Jova Beach Party è interamente a sua immagine e somiglianza.

Torniamo a Jovanotti e all’ambientalismo interessato di cui è portatore, in partnership coi numerosi sponsor sempre in cerca di nuove strategie di greenwashing. Qui il messaggio è: there is no alternative, ma almeno lasciamo pulito, raccogliamo i rifiuti in plastica.

L’attivismo di Jovanotti – eminentemente politico nei suoi effetti, per gli interessi che rappresenta e per l’insistenza con cui viene presentato come filantropico e «apolitico» – agisce nel contesto di un’oramai ineludibile crisi climatica. Crisi che il capitalismo, primo responsabile della condizione attuale, cerca di mettere a valore, anche attraverso la «responsabilizzazione del consumatore», spingendo verso stili di consumo presentati come meno impattanti – ma non meno redditizi.

Jovanotti, in sintesi, è funzionale al modello sviluppista e ai tentativi di rigenerazione in chiave green di questo modello, mentre all’orizzonte si profila un’apocalisse ecologica che comporterà, dal punto di vista sociale, enormi sconvolgimenti e conflitti.

L’attivismo di Jovanotti funziona anche come parafulmine alle critiche che gli vengono mosse: data la grande visibilità di cui gode, e la compiacenza e la condiscendenza che lo avviluppano, è gioco facile per lui – e per il suo ufficio stampa – neutralizzare le critiche presentandole come reazioni rancorose nei suoi confronti, mosse da «invidia» per il suo successo.

Il WWF, così si legge, ha deciso di «partecipare» al JBP perché, coinvolgendo centinaia di migliaia di persone, sarebbe stato «una grande occasione unica […] per sensibilizzare quante persone possibile sul tema dell’inquinamento da plastica».

Dalla lettura dei paragrafi con le iniziative adottate tappa per tappa, emerge in modo chiaro che il WWF ha lavorato per garantire la riuscita del JBP. La giustificazione addotta – citiamo testualmente, con tanto di doppio avverbio – è: «Il tour si sarebbe comunque fatto ugualmente».

Noi non sappiamo con quanto anticipo rispetto alle proteste il WWF abbia «chiesto e ottenuto» che venissero spostate alcune date e location o venissero «messi in sicurezza» alcuni siti particolarmente delicati, ma è sicuro che se qualcosa è stato fatto lo si deve anche alle associazioni e alle singole persone che hanno alzato la voce.

Ma il punto dolente resta: per il WWF gli impatti del mega evento sono «possibili» e di volta in volta gestiti in modo da risultare «non significativi»: gli impatti ci sono stati ma è stato messo tutto a posto. Il WWF ha lavorato per «ridurre i possibili impatti sia relativamente alle localizzazioni che rispetto ai criteri generali di gestione dell’evento.» A essere ignorato qui è l’impatto che sicuramente c’è stato durante i concerti: «I possibili impatti» sono davvero stati ridotti? Oppure, come spesso accade, le raccomandazioni fornite non sono state sufficienti? Chi lo verificherà? In altre parole, chi validerà il successo o il disastro socio-ambientale della formula JBP?

Va anche fatto notare che nessun riferimento al WWF è presente nella presentazione del tour sul sito di Trident, che appunto il tour produce e organizza.

Prima di proseguire, è bene ribadire un concetto fondamentale: il «puliti e integri» non è una condizione sufficiente ad annullare le conseguenze sul «contesto naturale unico» di un evento di tale portata. Tutt’altro.

Non è una novità che le partnership con grandi organizzazioni ambientaliste vengano utilizzate dal business per ottenere una sorta di “licenza sociale”, un salvacondotto per portare avanti attività altamente impattanti per l’ambiente e il clima, realizzare grandi opere devastanti, e operare in ambienti naturali altrimenti off-limits.

In questo senso, davanti alle spiagge e montagne d’Italia la macchina organizzativa Trident e l’artista-socialmente-responsabile si sono probabilmente posti la stessa domanda di una multinazionale mineraria davanti a un giacimento di rame, di oro, di ilmenite. E se il giacimento si trova sotto la foresta amazzonica, o sotto una foresta tropicale tra le più ricche in biodiversità al mondo, la loro domanda sarà comunque: come faccio a metterci sopra le mani, nonostante l’inevitabile compromissione/distruzione?

Che si tratti di industria mineraria o di show business, i capitalisti sanno bene che le grandi organizzazioni ambientaliste rispondono perfettamente alla necessità di rendere giustificabili attività dal pesante impatto ambientale, permettendo al business di salvare capra e cavoli, procedendo nonostante tutte le criticità e i pericoli. I più navigati avranno già sentito ossimori come sustainable mining (estrazione mineraria sostenibile), riferiti a miniere a cielo aperto di rame o di ilmenite che di sostenibile non hanno e non possono avere proprio niente.

Per quanto riguarda la posizione del WWF Italia, in un’intervista la presidente Donatella Bianchi ha ricondotto le ragioni delle critiche rivolte alla sua associazione a un fraintendimento e nulla più: «L’idea che il WWF rilasciasse le autorizzazioni, quelle spettano agli organi competenti.»

È una risposta che nulla spiega. È ovvio che le autorizzazioni del caso le rilascino le autorità competenti, nessuno poteva fraintendere questo punto. Invece crediamo sia più che sensato fare presente che il “metterci il logo” da parte di una grande associazione ambientalista sia un fattore non neutro nelle valutazioni delle autorità competenti, così come certamente pesa sull’opinione pubblica.

C’è stato un tempo in cui il lemma «greenwashing» identificava le campagne con cui l’impresa privata comprava una nuova immagine, a fronte di una percezione pubblica negativa del suo business.

Oggi questa prassi è un ingrediente indispensabile della ricetta con cui soggetti pubblici e privati si ritagliano un preciso posizionamento valoriale. Greenwashing, una spolverata di CSR, un pizzico di marketing, abbondanti pubbliche relazioni… Il campo della crisi ecologica è uno dei terreni oggi meno divisivi – ovvero, sul fatto che sia in corso una crisi ecologica siamo d’accordo più o meno tutti – ed è quindi campo privilegiato per questo genere di operazioni.

Il greenwashing non è più una “pezza” messa in un secondo momento, una mano di vernice verde per abbellire l’immagine di un business già esistente, ma un condono preventivo indispensabile ad avviare un business di tipo nuovo, che parte già dipinto di verde, perché senza il “verde” non estrarrebbe valore.

Per tornare alle certificazioni: il fatto che Jovanotti sbandieri di essere «WWF approved» non solo è pienamente coerente col discorso sul filantrocapitalismo, ma ci fa compiere un ulteriore passo giù per una china pericolosa. Oggi alcune entità, istituzioni e organismi si arrogano il diritto di fornire patenti di «sostenibilità ambientale», ricevute le quali si potrà avviare qualunque business.

Le agenzie che valutano l’impatto ambientale esistono da tempo, ma finora valutavano l’impatto di aziende, opere pubbliche, infrastrutture, attività produttive ecc. Qui siamo oltre: la retorica usata da Jovanotti col beneplacito di un’organizzazione come il WWF – che, per quanto grande e con migliaia di soci, può avere posizioni politiche controverse e non condivise da tutti – giustifica, pittandolo di verde, un grande evento privato e a scopo di lucro che danneggia un patrimonio ambientale collettivo.

Collettivo autonomo Ravennate

 

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